domenica 1 marzo 2009

De horrore atque vanitate - Colpi Sparsi -

Forse mi sono tolto un vetro

tutti mi guarderanno con tristezza
perché questa è la stagione dei morti.

(Dario Bellezza)


Forse mi sono tolto un vetro
o mi sono messo un peso e non sopporto
l’ottusa chiarità dei giorni che stanno
nell’attesa di sgranarsi, come in un porto
un molo teso di carichi e pescatori.
Insomma, il mio risveglio pare un’ombra
sulla tavola della sera, schiocca un ricordo
dai fondi bruciati degli anni:
“sono andati tutti via”.
E ancora alla riva marcia dei miei inganni
sul pontile, tentando di tracciare il miraggio
— per questa rotta trafigge un dito
di nostalgia — e dopo tutti gli affanni
attraversati di guardarlo con uguale certezza
disperata. Eppure il raggio del dolore
adesso s’allunga per un orizzonte che vomita
nel catino di ore e di stracci e di quattro
gocce di sangue che tingono i miei giorni.
Su uno scoglio c’è la posa del mio crollo,
quasi i profili di chi manca,
rocce votate all’eterno che le scava.
E nella notte, che mi sguinzaglia contro le sue lune,
arriva tardi la luce della piattaforma:
il palo a cui s’impicca la mia vita. Perché
appare sul ventre la mano del buio
e il lento piovere dei morti sulle labbra.


***

Così ci si rassegna a questa luna

Così ci si rassegna a questa luna,
teschio lavato dalla triste carne
dei nostri giorni; pendente nel raggio

del cielo, per la muta e vuota cruna
di un nome, di parole troppo scarne
che per le strade perdono il coraggio.

Non ci rimane che fracasso e un cuore,
e di conforto un amaro torpore.


***

Le ossa si tendono sulla tazza obliqua

Le ossa si tendono sulla tazza obliqua.
Il latte – dentro - che slaccio per la gola
è un filo che slava il sonno,
è una bava che inguinzaglia i sorsi
- treni che corrono nel buio con la paura
del mattino - è una mazza che batte
fra il cuore e una catasta di anni, che fa
del rachide un ulivo con cerchi dolenti
di carne (un arco intriso di vento).
Nel lavello ci metto una tazza, ci lavo
gli stagni di latte, gli orli rappresi,
i cagli di sapori improvvisi affiorati
da ricordi sospesi fino allo sputo
di rabbia; e le stecche malconce di qualche
fumoso ventaglio che disegna un incanto,
che a volte – ancora – la sera squaderno.
Venduto alla frusta dell’acqua,
vedere ingoiare i miei resti è il dono
all’ottusa e non mia voglia di stare.
Ma di là, nell’altra stanza – una stanza
che a vederla è una fossa - l’armadio
(dentro, qualche bandiera per il giorno)
urla il mio nome e il sangue schiavo.

Ho una gran voglia di morte, come
quando ne avevo di more nel sole.


***

La luna è piovuta

La luna è piovuta
sulle cose
di cenere.

Che nello spazio immemore
isole sospese
gravitano mute.

E ricordi lividi
(naufraghi dell'ultimo grido)
a risalire il giorno
spezzato e caverna.

I morti gemmano un mare.


***

Ho cavato ogni pianto

Ho cavato ogni pianto
dall’intrico di vene e di respiri;
Rimane solo lo schianto del corpo
come oracolo sepolto nell’eco
dell’ultimo responso.

E dai varchi caduti uno sull’altro
delle macerie e dei deliri
l’estremo ordito del mio canto sorge
in una voce d’incendio che divora
il carcere dei sensi ottusi,
i chiusi luoghi che di un sonno incerto
hanno fatto dimora d’astio e fiele
sulla cima delle mie illusioni,
e scuro boia nell’attesa che venisse
la mia penombra.

Ma nell’uguale ora che torna
appare all’orizzonte un funerale,
lungo per le ombre di corone e bare,
per le anche storpie dei vessilli lento,
e in vetta una croce così ubriaca
di morte che sta per stramazzare.

Il nero convoglio allunga
l’obliquo contorno sulla mia voce,
nell’aria la dilegua come all’alba
un naufragio.
Rapisce solo il pensiero più lieve,
quello che stava contro
ogni più triste presagio;
lo annienta, e la polvere è fra le schiere
delle nuche più chine.

Fra spalanchi di carcasse volte al cielo,
arene di deserti e dune come nocche
livide di rabbia,
il corteo s’inarca e segue il largo raggio,
come lumaca che rigira
lungo gli orli del mondo.


***

E di là dal gelo che allaga

E di là dal gelo che allaga
d’assenze gli incontri di volti
e travagli a coltri nel cielo
incrocia un ritorno la casa
malata: il sonno delle mura emerso
dalla contrada al disadorno eterno.

Ancora al cancello che scruta
tra oleandri e cardini le orme,
ancora alle camere ingorde
di voci abbracciate al mattino,
ma non sanno quell'eco di catene
che canta e ammanta le chiuse cantine.

E la soglia incanta quest'ora
spogliata che pare uno spettro,
e la inchioda, muta la ignora,
tra nervi e sorrisi. Nel giorno
che sgronda le ombre non corre uno sguardo
verso il gelo che intomba anche la morte.


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